Chiudevo la porta. O quella che doveva essere stata una porta a portone. Fatta ad arco, ora in legno buono, a due grandi ante che chiudevano il locale a piano terra che penso fosse stato un ovile o un pollaio.
Nella campagna di Chiusi c’era silenzio alla sera.
La zia che mi ospitava stava di sopra, tra le travi belle del cascinale rifatto bene, a misura di uomo essenziale, a misura d’artista. Vivevano lì a volte assieme, lei e il suo compagno Cavalli, pittore, quando lasciavano Milano.
Ma di sicurezza – teorica – lì non ce n’era per nulla. Uno spintone e quella porta avrebbe ceduto lasciando entrare i briganti della notte nella stanza. Fin da bambino avevo cercato quella protezione che forse mi mancava e m’ero trastullato con fisse su come evitare ogni accidente, forse già alla ricerca dell’immortalità.
Avevo fatto il secondo tempo quel sabato: partivo fieramente in prima fila.
L’Abarth 850 l’avevo lasciata all’interno dell’Autodromo di Magione, sul carrello. Il meccanico che il preparatore m’aveva dato era un apprendista di primo pelo, quindi dormiva nella macchina da traino, una Renault 16 (allora comoda visto che era il 1975). Bisognava stare attenti a lasciare l’auto da corsa sola perché c’erano colleghi che mettevano miele nel motore o pisciavano nel serbatoio della benzina.
All’indomani dovevo arrivare due ore prima della gara, prevista per le ore 15.
Tutto era pronto, preparato, verificato, organizzato.
Spensi la luce e dormii.
La mattina al caffelatte con la Rosa, quella mia zia, parlammo del più e del meno. La zia non toccava per nulla i temi triti sulle corse… perché lo fai, cosa vuol dire, stai attento. Forse non aveva capito, forse era una artista vera anche lei che dipingeva tessuti, forse era abbastanza moderna (aveva fatto la partigiana e aveva anche vissuto a Londra..) da non volermi rompere le scatole con posizioni illiberali o convenzionali.
Ci salutammo e mi disse però auguri.
Arrivai speranzoso all’appuntamento col meccanico, due ore prima della corsa.
Mi venne incontro scuotendo la testa.
La gara era stata anticipata: il mio posto verniciato sull’asfalto era vuoto e la gara l’avevano già corsa. Aveva vinto Pinco Pallino, uno che andava più piano di me.
E aggiunse altro.
Dimenticavo: a quel tempo non esistevano i telefonini cellulari.