Il Leon d'Oro

    Col fare compìto d'altri tempi, le disse: " Zia Jula avresti da farmi dormire qui per stanotte?" Faceva caldo, ma molto meno che nei giorni precedenti, quando tutto il paese aveva toccato i quaranta gradi.

    Fu una bellissima giornata, che iniziava per noi, nel pomeriggio. Il grande giardino era pieno di ricordi. Ricordi di tutti, ricordi per tutti, diversi ed uguali, nelle nostre menti, mentre noi iniziavamo ad arrivare alla festa di compleanno della ormai vecchia zia, l'ultima dei fratelli nostri padri. Eravamo allora, in famiglia con cognome Castelli, una ventina. Di cui una buona parte era presente lì, nella casa che lo zio di nostro nonno Achille, Luigi, aveva comprato nel 1877. Matteo - come fosse un segno - ne aveva appena scoperto in solaio l'antico atto d'acquisto. Un busto di marmo guardava lontano con aria pensierosa, così si era voluto Luigi, vicino alla sua casa. Gli misi attorno alla spalla il braccio e mi ci feci fotografare, così anche io mi ero voluto con lui. Tirrena parlava di cibo fin dalle cinque. Non per fame, ma per appetito, vizio di famiglia. Vizio forse nato ai tempi della Locanda "Leon d'oro ", in Mozzate dall'inizio dell'Ottocento e che aveva smesso l'attività di Posta e Relais di campagna verso il 1870, dopo due o tre generazioni dedite a fornelli stanze e cavalli. La storia del loro Paese era stata forgiata durante le loro vite, grazie a quelli come loro, in una specie di "Via col vento".. Le nostre guerre di indipendenza dallo straniero in Italia, le avevano combattute e vinte. E con una fortuna sfacciata, nessuno dei dieci fratelli figli di Pietro era morto in battaglia o in guerra (e con Garibaldi si combatteva duro).

    "Certo che ho da darti da dormire!" le rispose, e la portò su al primo piano nella stanza che abitarono in vari di noi, nel tempo. Anch'io ci stavo spesso al sabato a dormire quando avevo quattordici anni, di fianco alla stanza della Nonna. "E tu ti ricordi, Tirrena - le intimò la Zia - che sei nata proprio in questa stanza?!". "Certo, come no!" rispose Tirrena ridendo.

    Si toccavano i temi come pennellate da impressionista, si vedeva un colore in una una luce e si era tutti insieme dentro a quel momento, lasciandolo andar via in silenzio, prima che si affievolisse, prima che qualcuno aggiungesse parola sbagliata, prima che il sogno nel risveglio scomparisse, malgrado lo trattenessimo con disperata nostalgia.

    Quel giardino era la nostra cornice. Non sapevamo perché, né sapevamo come esattamente; tutto era sottinteso, accennato, vagamente ricordato, confuso con vecchie foto, ridotto a paura, ridotto a gioia. Si mangiava, in famiglia, si mangiava forte. Chiesi in giro: "Ma tu non noti un calo nella capacità digestiva?" - "No. Digerisco anche i sassi". Che invidia. Poi veniva fuori che non era vero.

    In sala da pranzo la Zia aveva fatto ormai togliere il segno del colpo del mitra sul muro. Era stato tenuto in vista per più di sessant'anni. Lo aveva sparato un soldato quando avevano arrestato suo padre, il 23 Aprile del 1945 (durante la Seconda guerra mondiale, che finì il 25 Aprile, appena in tempo per evitare che fosse fucilato). Mio nonno – suo padre – era stato preso per avere nascosto in casa degli amici ebrei.

    Eppure Achille era stato parte dello Stato che ora lo voleva uccidere. Ed aveva anche perso un figlio andato volontario per quello stesso Stato.

    La vita è piena di "eppure". Noi intanto, si mangiava. E si parlava. I piccoli correvano in giro come solo e sempre loro san fare. Delle foto, dei brindisi. Le notizie di uno e dell'altro.

    Gli alberi enormi ci guardavano come avevano guardato le altre generazioni, prima. Sorridevo nel buio. La notte si liquefò nella musica che si suonava con la Jazz Band. Sembrava ora un racconto di Scott Fitzgerald. Ma non lo era. E in ogni nostro letto tutto tacque.